Tuesday 1 December 2009

I 50 ANNI DI ESILIO DEL DALAI LAMA E DEI TIBETANI



Il primo ottobre 1949 Radio Benjing annunciò che “the People’s Liberation Army” doveva liberare tutti i territori cinesi, compreso il Tibet. Così dopo un anno 40000 truppe cinesi attaccarono la capitale della provincia orientale del Tibet e l’esercito tibetano costituito da solo 8000 soldati, dei quali la metà morì sul campo, non potette fare niente. Al Dalai Lama, che aveva solo quindici anni, fu richiesto di abbandonare Lhasa, la capitale dove risiedeva il governo, per Dromo, vicino al confine indiano. L’ufficio tibetano degli affari esteri disse: “Il Tibet è unito come un solo uomo dietro il Dalai Lama che ha preso i pieni poteri… Ci appelliamo al mondo per un intervento pacifico di fronte a questo chiaro caso di aggressione non provocata”.
Nel 1951 le truppe cinesi occuparono tutte le maggiori città, compresa Lhasa, e la Cina rifiutò ogni negoziazione proposta dal Dalai Lama. Mao Zedong cercò di imporre l’autorità cinese sul governo tibetano. Nel marzo del 1959 ci fu il sospetto forte di un’intenzione da parte dei cinesi che volessero uccidere il Dalai Lama con un sotterfugio. Così egli decise di fuggire in India, accompagnato dai suoi ministri, dove tuttora risiede. Ristabilì il governo in esilio e dichiarò pubblicamente: “Dovunque son, accompagnato dal mio governo il popolo tibetano ci riconoscerà come il governo del Tibet”. Nei mesi successivi migliaia di tibetani raggiunsero l’India, il Bhutan, il Sikkim. Numerose furono a quel tempo le manifestazioni di resistenza e solo tra marzo e ottobre del 1959 furono uccisi 87 mila membri della resistenza tibetana.
Tra il 1949 e il 1979 più di un milione di tibetani morirono torturati in prigione, in esecuzioni, uccisi durante combattimenti, morti per la fame, suicidati.
I Tibetani vengono arrestati e imprigionati per aver parlato con degli stranieri, o per aver cantato una canzone patriottica, per aver incollato sui muri dei poster, o per il possesso di un’autobiografia del Dalai Lama o di qualche video e audio cassette o per aver consigliato gli amici a vestirsi con gli abiti tipici tibetani durante il giorno nazionale cinese, o per aver partecipato a pacifiche manifestazioni.
Nonostante la Cina abbia firmato la convenzione contro la tortura nel 1968, essa viene spesso praticata nei confronti dei Tibetani. Vengono picchiati con ogni cosa disponibile, mazze di ferro, bastoni, mozziconi di sigaretta, ecc. le torture vengono usate per convincere i prigionieri a firmare le confessioni. I metodi di tortura sono innumerevoli, tra i quali, mutilazioni, l’uso dei cani da guardia che attaccano i prigionieri, l’uso di elettrodi da bestiame, soprattutto sulle donne, shock elettrici, bruciature da sigaretta.
Il governo cinese ha coltivato la politica dell’introduzione dei cinesi in Tibet. Al momento i cinesi hanno superato in numero i tibetani e se si continua così, i tibetani diventeranno una minoranza nel proprio Paese.
La situazione in Tibet è drammatica. La popolazione tibetana ha un tasso di analfabetismo del 55 per cento. La mancanza di educazione, che prima del 1959 veniva data soprattutto negli istituti monastici, comporta un livello di occupazione molto basso e a lavori poveri retribuiti molto male. L’urbanizzazione è aumentata come forma di progresso, sostiene la Cina. Le nuove città in Tibet sono delle isole insostenibili di privilegio e di forte disugualità, circondate dalla povertà rurale.
Sono state costruite numerose dighe per alimentare le grandi industrie della Cina. Tutto questo riduce l’acqua disponibile anche nei paesi del Sud-Est asiatico, l’India, Bangladesh, in quanto dalle montagne del Tibet, chiamato “il tetto del mondo”, nascono i dieci maggiori fiumi dell’Asia e le dighe ne riducono l’approvigionamento. La superficie forestale si è dimezzata negli ultimi 50 anni.
Mao Zedong era convinto che la religione fosse un veleno e che ritardasse il progresso di un Paese. La maggior parte dei siti religiosi e culturali sono stati distrutti. Degli oltre sei mila monasteri, dove risiedevano quasi sei cento mila monaci, presenti nel 1959, solo otto ne rimanevano nel 1976.
Attualmente i rifugiati tibetano sono oltre 120 mila, di cui 100 mila si trovano in India, 20 mila in Nepal e il resto in Bhutan. Qualcuno è riuscito ad a raggiungere l’Europa o l’America. Ma per loro è molto difficile perché non hanno un passaporto, né un governo riconosciuto che li possa aiutare.
Vivono concentrati in campi profughi di diverse dimensioni, hanno creato della scuole tibetane, dove viene data un’educazione e un insegnamento del tibetano, con la premessa di mantenere anche nelle nuove generazioni la cultura del Tibet. Sono stati costruiti numerosi monasteri, dove i monaci posso studiare buddismo e praticarlo.
Ormai siamo giunti alla terza generazione. Molti sono nati in India e la prima generazione è formata dagli anziani. Ancora oggi mille persone all’anno arrivano in India, dopo un viaggio tra le montagne tra Tibet e Nepal, che può durare anche oltre 30 giorni se fatto a piedi, e un periodo passato in Nepal prima dell’ottenimento dei vari permessi. Fino al marzo dell’anno scorso, mese in cui numerose manifestazioni furono organizzate contro i giochi olimpici in Cina, ne arrivavano il doppio.
Molte famiglie mandano solo i bambini per permettere loro di avere un’educazione, che quindi si trovano ad affrontare una vita da orfani, visto che non avranno la possibilità di vedere i genitori mai più.

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